TTIP e CETA: una partita ancora aperta

A transatlantic Gathering of Local & Public Representatives. New economic assessments.

Ricordo quando affrontai il tema del CETA in una puntata di Mattina Cinque, su Canale Cinque. Ero in collegamento da Bruxelles e in studio sembravano voler parlare di tutt’altro, più che altro si parlava della sofisticazione alimentare, di merci non buone che arrivano da oltre oceano, del vino fatto con le polveri.

In studio c’era Scordamaglia, Presidente di Federalimentare. In precedenza eravamo stati ospiti insieme a “L’aria che tira” – sempre per parlare di – TTIP e CETA, che descriveva come panacee per le nostre aziende, decantando le opportunità che questi trattati avrebbero significato per noi.

Ebbene, quella mattina su Canale 5, Scordamaglia dovette ammettere: il CETA è stato molto deludente nei risultati, ha portato molti problemi, i nostri produttori non sono contenti. Perché nella realtà si è verificato esattamente quello che avevamo previsto noi, ovvero che le nostre esportazioni verso il Canada non sono aumentate. Se è vero che abbiamo fatto il 9% in più, quest’anno, quello precedente – senza CETA – avevamo fatto il 14%. Insomma non è il CETA a far crescere le nostre esportazioni.

In compenso sono aumentate le importazioni dal Canada, molto più di quanto non sia cresciuto l’export. Ho sempre sostenuto che chi vende già, oggi, negli Stati Uniti non lo fa grazie alla politica daziaria, bensì perché ha costruito negli anni il proprio mercato, ed è un mercato – quello USA – talmente diverso dal nostro e talmente saturo, che o ti costruisci la tua nicchia, o non hai possibilità di “esplodere” arrivando a tutti i consumatori in modo indifferenziato, e questo a prescindere dalla presenza o meno di dazi.

Spesso le grandi lobbies ci riempiono la testa parlando del “boom” dell’export dell’agroalimentare italiano, ma i dati portati al Forum Ambrosetti – ci sono andata, a sentirli – dicevano che noi esportiamo il 65% della nostra produzione agroalimentare. Poi scopri che il 75% di questa cifra è in Europa, non è esportazione, è mercato interno! Sì, è vero, che passa dall’ufficio export delle aziende italiane, ma non ha nulla a che fare con il traffico extraeuropeo, quello soggetto alla discussione su dazi e trattati. Per quanto mi riguarda, l’Europa va vista come mercato interno, poiché totalmente liberalizzato.

Il mercato internazionale vale il 25% di quel traffico. E, se si analizzano quali sono le aziende che generano questo 25% che va fuori dall’Europa, si scopre che sono soltanto i “soliti noti”: i giganti, numericamente il 2% delle aziende europee e italiane.

Se il consorzio del Parmigiano Reggiano cresce, sono contentissima, se la Ferrari cresce, sono felicissima: crea posti di lavoro, ma se per la sua crescita devono chiudere il 76% delle aziende risicole del vercellese, abbiamo un problema.

E su questo problema ci sarà da lavorare, nei prossimi anni.

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