Il caso del riso: il dumping commerciale

È palese, noto a tutti, che i Paesi del Nord sono molto forti e molto bravi a fare squadra tra loro, spesso a discapito dei Paesi del Sud, che sono più deboli economicamente e politicamente.

Paradigmatico, l’esempio delle politiche agricole: l’agricoltura è sempre stata utilizzata come merce di scambio, specialmente nelle trattative con i Paesi in via di sviluppo, le cui economie si basano sull’agricoltura. Ma quando si fa un accordo che favorisce i loro prodotti, a scapito magari di una produzione europea, mancano i meccanismi di protezione interna.

La logica vorrebbe che in questi casi, il Paese che ottiene più vantaggi dagli accordi, dovrebbe compensare con quello che ha degli svantaggi. Sulla carta, è nel mercato interno e nel bilancio dell’Unione Europea che si devono attivare dei meccanismi di protezione. Ma questi meccanismi esistono, appunto, solo sulla carta!

Questi aspetti non competono al Parlamento, ma al Consiglio e alla Commissione, e quindi sono gli Stati membri che devono farsi forte per correggere le disparità. Ma – come abbiamo costatato – negli anni chi ci ha preceduto ha fatto un lavoro pessimo. Prendiamo il riso: abbiamo – nel mercato europeo – un surplus di riso che proviene dalla Cambogia e dal Myanmar, e che ha messo in ginocchio le piccole aziende risicole della Lomellina, del Vercellese, del Novarese, ma anche spagnole e greche.

Le intenzioni erano assolutamente nobili: degli accordi che si chiamano “Everything but arms”, ossia Paesi in via di sviluppo possono esportare a dazio zero tutto quello che vogliono tranne le armi. Questo servirebbe ad aiutare il loro sviluppo, con l’idea che migliorando la loro condizione sociale, poi a nostra volta, noi possiamo invece vendere loro, prodotti più in alto nella catena globale del valore e quindi avere la compensazione.

Peccato che – di fatto – in questi Paesi, questo tipo di accordi non ha portato nessuno sviluppo, perché subito sono arrivate le grandi multinazionali e si sono comprate tutte le piantagioni. Quindi la ricchezza che si crea non rimane sul territorio, non si traduce in più benessere e, quindi, maggiori e migliori consumi e non rendono quei Paesi un nuovo mercato per i nostri prodotti di qualità. Anzi! Le multinazionali semplicemente vanno a localizzare lì.

Il risultato è che il riso, che prima si comprava in Italia, in Grecia e in Spagna, ora lo si produce direttamente lì per poi vendercelo, grazie ai dazi zero, al basso costo della manodopera, norme sanitarie e fitosanitarie molto più blande rispetto a quelle che ci sono in Europa. Magari installano direttamente là gli stabilimenti di trasformazione, e così vendono ai grandi distributori i prodotti già confezionati, finiti. In questo modo sbaragliano la concorrenza e “tagliano fuori” i produttori europei.

Ci sarebbero – come dicevo, solo sulla carta – delle clausole di salvaguardia, per proteggere i nostri produttori da queste storture. Ma come si fa a vedere quando c’è una stortura? L’indicatore che è preso in considerazione è quello di quando hanno chiuso il 76% delle aziende del settore. Peccato che quando ha chiuso il 76% degli operatori di un settore significa che quel settore – di fatto – è stato definitivamente devastato. Sicuramente sono falliti tutti i piccoli operatori, e sono rimasti soltanto quei colossi, che sono gli stessi che hanno de localizzato!

Impossibile pensare che non vi sia stata malafede tra chi ha proposto, scritto e votato norme di questo genere!

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