Il liceo: il primo “amore” per la politica

Non ero studiosa: andavo benissimo a scuola ma non studiavo, facevo tutt’altro: passavo il pomeriggio a giocare a pallavolo, a teatro, o a fare qualunque altra attività, poi andavo a scuola al mattino e studiavo il minimo indispensabile per assicurarmi risultati più che soddisfacenti.

In quegli anni si diffuse il fenomeno della “Pantera”, che in qualche modo coinvolse anche noi che non eravamo assolutamente politicizzati, nonostante qualcuno sostenga il contrario.

E ricordo un giorno – al quarto anno – venne convocata un’assemblea di emergenza, di quelle straordinarie alle quali non potevi mancare. Tant’è che in palestra – ovviamente – c’era un gran caos: non so quante ragazze, visto che era un liceo prettamente femminile, di maschi ce n’erano pochi, e insomma, vedo questi 3 o 4 ragazzetti, poveretti, un po’ straniti, che cercano di dire qualche cosa al microfono senza riuscire, con la voce, ad andare oltre il brusio di tutte noi che ci facevamo tranquillamente gli affari nostri.

Non so che cosa mi abbia colpito: ma so che a un certo punto mi ha infastidito che questi ragazzi cercassero in tutti i modi di dirci qualche cosa, che doveva essere per forza importante, altrimenti non avrebbero convocato una riunione straordinaria, ma nessuno li considerava. Fu allora che mi avvicinai alla scrivania, chiedendo a loro, ai rappresentanti di Istituto che erano stati eletti da poco, quale fosse l’argomento dell’assemblea, perché non si riusciva a capire assolutamente nulla di quello che stavano dicendo. Mi spiegarono che avevamo dei seri problemi legati alla gestione Comunale e non Statale del nostro istituto. Non mi sto a dilungare, ma si trattava di questioni relative alle graduatorie, che portavano a una forte precarietà e al turn-over degli insegnanti, oltre a problemi di edilizia scolastica. Concordai: erano problemi gravi, ma neanche loro, i rappresentanti d’istituto, avevano idea di come affrontarli! Non ricordo neanche che cosa ho detto, so solo che sono fui presa da un momento di ispirazione: presi la parola e in pochi minuti li misi tutti in riga. Pronunciai un discorso sull’importanza della scuola, sul fatto che la scuola non sono i muri, non sono le pareti ma siamo noi che la componiamo e che dobbiamo prendercene responsabilità, quindi se vogliamo che le cose cambino, dobbiamo cambiare noi.

Fu un momento molto emozionante, penso, perché piano piano tutta la scuola smise di fare brusio e iniziò ad ascoltarmi, inclusi gli insegnanti. E dopo il mio discorso raccolsi testimonianze e proposte da chi voleva parlare… durò più di un’ora. Al punto che al termine dell’assemblea studentesca, uscimmo con l’idea di creare una “rete” di delegati di tutti gli istituti, che si incontrasse regolarmente per discutere e farsi sentire dalle Istituzioni e rivendicare qualche soluzione o, in alternativa, organizzare occupazioni.

Indovinate un po’? Venni eletta come delegata della scuola, io, e non uno dei rappresentanti d’istituto! Il giorno successivo ricordo che l’insegnante di arte – personaggio che oggi definiremmo come esempio vivente del “radical-chic” – entrò nella mia classe, anche se non era la sua ora e disse: “Sono venuta per dire una cosa. Beghin, ieri ho sentito il tuo discorso, volevo farti i complimenti perché non avevo capito fossi così in gamba”. Immaginate l’emozione…

Fu un’esperienza bellissima, molto divertente: io insieme a questi altri quattro ragazzi delle altre scuole, ci incontravamo, vivevamo il fermento tipico dei ragazzi di 17 anni, facendo manifestazioni, fino ad arrivare all’occupazione di un Liceo. Chiaramente abbiamo occupato il più bello, il Barabino, ovvero il liceo artistico, e abbiamo passato le notti lì con il sacco a pelo. Ricordo una serata trascorsa con i vigili urbani che dovevano stare lì per sorvegliarci… ed è finita giocando insieme a loro un torneo di Cirulla, la scopa a quindici genovese! Non solo: finito di giocare Cirulla, ci prese una gran fame e il vigile con la macchina ci portò a comprare la focaccia, lo ricordo ancora oggi.

Politicamente, facemmo quello che dovevamo fare: abbiamo incontrato il Sindaco, fatto altre manifestazioni… quel che conta, a distanza di anni, più che i risultati concreti ottenuti è a mio avviso proprio l’aver deciso di intraprendere quel percorso, di vivere da protagonisti il proprio “ingresso nella società adulta”, prendendosi a cuore la gestione del bene comune. Un percorso nato spontaneamente e dal basso.

Poi chiaramente qualcuno aveva provato a “cavalcarci”: ricordo che i Giovani Comunisti proposero di stamparci gratis i volantini, ma io mi rifiutai perché: “Se ci facciamo stampare i volantini da loro poi veniamo associati a loro”. Insomma infiltrazioni ve ne furono: in un’epoca dove non c’erano i social, non c’erano i telefonini, erano riusciti ad avere il mio numero di telefono di casa, e siccome avevano visto del potenziale, mi telefonavano tutti i giorni per propormi di iscrivermi a questo o quell’altro partito o movimento giovanile. Io che non sapevo neanche cosa fosse un partito! Figurarsi i miei genitori: mio padre che era un uomo molto pratico, un idraulico, arriva e fa “guarda che c’è uno di Lotta comunista che ti vuole”, “Lotta Comunista?” mi diceva. “Ma io non c’entro niente con questa gente qua” rispondevo.

Siamo alla fine degli anni ’80, come già detto, a livello nazionale il movimento universitario della “Pantera” teneva banco sui media, e noi venimmo in qualche modo accomunati a quella esperienza che però era molto politicizzata, mentre a noi, ragazzi genovesi, appena maggiorenni, interessava solo migliorare la gestione dei nostri istituti comunali, che sinceramente era davvero pessima…

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